Ho conosciuto Arianna lo scorso luglio in Italia. E’ presidente di un’organizzazione senza scopo di lucro chiamata “Support and Sustain Children”, che ha sede nella mia città natale, Bergamo. Quando ho chiesto se potevo unirmi ad una missione in uno dei campi profughi in cui operano, l’interesse sembrava essere reciproco ma a causa della pandemia di Covid 19 non abbiamo potuto fissare una data.
Il tempo è passato fino a quando un giorno ad ottobre abbiamo parlato al telefono e Arianna mi ha chiesto: “Vuoi andare in Turchia domani?” Almeno – pensai – era ancora mattina.
Ho passato le ore successive lavorando e cercando voli e regolamenti di viaggio tra Spagna, Italia, Germania, Austria e Turchia poiché non c’erano collegamenti diretti. Più leggevo, più mi confondevo. Anche la polizia aeroportuale di Colonia non ha potuto fornire informazioni precise sui passeggeri provenienti dalla Spagna, diretti in Turchia che volavano via Germania né se avrei potuto muovermi liberamente tra i gate dell’aeroporto.
Alla fine, dopo una birra con gli amici, ho prenotato un itinerario notturno Palma-Colonia-Istanbul-Adana di 14 ore per il giorno successivo.
La mattina seguente mi sono svegliato con un grande senso di rimorso, per non essermi fermato ad una birra la sera prima. La giornata sarebbe stata lunga e la notte ancora di più.
Ho iniziato cambiando una gomma a terra dell’auto prima di portare la piccola a scuola. Ho lavorato fino ad un’ora prima di partire per l’aeroporto, ho fatto le valigie, ho salutato la mia ragazza Anna, nostra figlia Nina e me ne sono andato.
Arrivato in aeroporto, ho scoperto che il parcheggio più economico a sosta lunga era chiuso, quindi ho dovuto lasciare la macchina nell’edificio principale. Ryanair si è poi unita alla “mungitura” facendomi pagare una fortuna per stampare una piccola carta d’imbarco (dal momento che il broker col quale avevo prenotato non mi permetteva di fare il check-in online). Era come quando giochi a Monopoli e finisci prima su Viale dei Giardini e subito dopo su Parco della Vittoria.
All’aeroporto di Colonia mi sono perso in un terminal buio e deserto con un altro passeggero proveniente da Maiorca mentre seguivamo le indicazioni per i voli di collegamento. La Turchia era l’unico paese che accettava arrivi dalla Spagna ed era la sua sola opzione per poter trascorrere una vacanza all’estero. Stavamo entrambi cercando di rimanere ad ogni costo nell’edificio delle partenze per evitare ogni possibile test Covid o, peggio ancora, una quarantena. Alla fine ci è stato detto che potevamo andare ovunque ci pareva. Tutti i controlli e le restrizioni sembravano essere un’invenzione dei media, forse troppo occupati a spaventare il loro pubblico piuttosto che a informarlo.
Sono arrivato ad Adana in perfetto orario e dopo una breve attesa dovuta a qualche problema con l’auto noleggiata, il team SSCH è arrivato a prendermi. Eravamo in sei. Dopo le presentazioni e dopo avere finalmente “domato” il cambio un’altra volta, siamo partiti.
Davanti c’erano Arianna e alla guida suo marito Luca. In Italia lui è giardiniere a tempo pieno. Supervisionano i progetti insieme dal 2014.
Arianna and Luca scortati dai loro giovani amici
Seduta davanti a me c’era Elisabetta che si sarebbe occupata del programma educativo. A casa insegna al carcere Lorusso e Cutugno di Torino. E’ presidente del Comitato Mahmud (Comitato Mahmud | Facebook) che sostiene direttamente tre gruppi di orfani del campo. Ha lavorato in varie missioni in Nepal, Sudan e Italia e collabora con Arianna dal 2015.
L’accoglienza per Elisabetta all’arrivo
Accanto a lei c’era Yahya, coordinatore e interprete. Viene da Idlib e ha lasciato la Siria quando è iniziata la guerra. Ha poi viaggiato tra Libano e Giappone per continuare la sua formazione come archeologo. E’ entrato in Turchia per visitare il padre morente e da allora non è più partito. Ora vive ad Adana con sua moglie, cercando di guadagnarsi da vivere con lo stipendio della SSCH e altri piccoli lavori. Nelle sue stesse parole: “Sono felice di lavorare con SSCH perchè stanno aiutando la diaspora del mio popolo, oppresso da questa guerra crudele”.
Yahya aiuta una bambina al pozzo
Dietro con me c’era Anna, dottoressa. In precedenza ha lavorato come aiuto medico con la Marina Militare Italiana, su una nave di salvataggio nel Mar Mediterraneo durante l’Operazione Mare Sicuro. Ha anche partecipato a diverse missioni umanitarie in Sud America. Ora lavora come freelance a Bergamo – la città italiana dove il Covid19 ha colpito per primo e in modo più letale all’inizio di quest’anno – per la Fondazione Giovanni Carlo Rota. A un certo punto anche lei ha contratto il virus.
Anna aka “Doctora” benvenuta al campo
Dopo un breve viaggio siamo arrivati ad un negozio di cosmetici che avrebbe dovuto fornirci medicinali perchè SSCH non è autorizzato a trasportare farmaci dall’Italia. Purtroppo quel giorno le farmacie erano chiuse, quindi il fratellino del proprietario del negozio ha dovuto provvedere con ciò che era disponibile… da qualche parte.
L’ultima volta che un medico ha visitato il campo è stato a febbraio, poco prima dell’epidemia di Covid19 in Europa, 8 mesi prima. Anna è rimasta chiaramente delusa quando si è ritrovata con solo una manciata di antidolorifici e alcune bottigliette di collirio.
Il campo si trova a poco meno di un’ora di macchina a sud di Adana. Ospita circa 800 famiglie e SSCH si prende cura dei suoi abitanti dal 2014. Sono tutti siriani, principalmente provenienti da Hama, Idlib e Aleppo.
Panoramica del campo al tramonto
Quando siamo arrivati a destinazione siamo stati subito circondati da grandi sorrisi e bambini gioiosi.
Per me era la prima volta al campo, ma Arianna e il resto della squadra hanno visto questi bambini crescere. La loro emozione di essere finalmente riuniti dopo così tanto tempo era palpabile. La gioia che questi volontari stavano portando a queste persone semplicemente stando lì con loro era evidente.
Subito dopo il nostro arrivo abbiamo incontrato Abu Kaled, il leader del primo settore del campo. Con lui Arianna coordinava la distribuzione dei pacchi alimentari (pasta, riso, biscotti, tè, sapone, farina, fagioli, zucchero e olio). Tutti i prodotti vengono acquistati localmente. Il pozzo, realizzato da poche settimane, si trova nel suo cortile e ha portato un enorme sollievo – logisticamente ed economicamente – sia ai rifugiati che a SSCH.
Anna si è sistemata nella tenda di Abu Kaled, destinata ad essere la sua clinica per quel giorno ed ha iniziato ad assistere le famiglie che si erano radunate in gran numero sia all’interno che all’esterno della tenda.
Nel frattempo, in un’altra parte del campo, Elisabetta ha iniziato con la gestione della tenda Rainbow: l’aula. Insegnava ai bambini e ai loro tutori – anch’essi abitanti del campo – e distribuiva materiale scolastico.
Ogni comunicazione è stata resa possibile da Yahya, che doveva essere in tre posti contemporaneamente. Un secondo interprete (anch’egli rifugiato Siriano) avrebbe dovuto viaggiare con Elisabetta ma gli è stato negato l’imbarco all’aeroporto in Italia.
Questo primo giorno è passato velocemente e la sera siamo tornati al nostro hotel ad Adana. Il povero Yahya era così provato dallo stress che è andato a comprare delle sigarette.
Dopo una doccia assolutamente necessaria, mi sono apprestato a salvare le immagini sul mio laptop. Con mio grande sgomento ho visto che il disco fisso era pieno e io non ne avevo uno esterno per il backup. Ho ricominciato a sudare. L’eliminazione dei file sembrava avere l’effetto opposto in quanto lo spazio libero si stava magicamente riducendo! Ho pensato che fosse un incubo e speravo che presto mi sarei svegliato, ma non è successo. Ho provato a reinstallare l’intero sistema operativo ma il wi-fi era così debole che ho dovuto rinunciare. Ho chiesto in reception se per caso mi avrebbero potuto aiutare ma dopo alcuni tentativi di spiegare di cosa avevo bisogno, mi è stato offerto un caricatore USB per iPhone. Mi sentivo senza speranza, la mia unica opzione era acquistare un HD esterno la mattina seguente prima di andare al campo – dato che già stavo andando bene con il budget – e così liberare spazio sulle mie schede. Arianna sarebbe magari rimasta delusa di non avere subito nuove foto, ma almeno il materiale non sarebbe andato perduto – ma vediamo cos’altro sarebbe successo.
Più tardi siamo usciti per cenare. Mentre camminavo armeggiavo nelle tasche e ho sentito che c’erano due delle tre schede di memoria su cui avevo salvato le fotografie. Non ero sicuro se esserne felice o no. Dopo un famoso kebab di Adana siamo tornati in hotel; in questo breve tratto di circa 100 metri, la magia nera ha colpito di nuovo e le mie schede SD non c’erano più. Ho cercato per ore, prima da solo e poi con Yahya, ovunque fossimo stati, senza successo. Tutti gli scatti della seconda metà della giornata erano spariti per sempre. Speravo ancora una volta di essere in un incubo nell’incubo, ma era tutto reale. Era successo, avevo perso le foto, forse alcuni dei ritratti più significativi che avessi mai scattato. Ho deciso comunque di fare un edit rapido dell’unica memoria rimasta. Ho tolto la fotocamera dalla borsa e – ovviamente – mi è caduta, frantumando il filtro UV. Onestamente, non poteva importarmene di meno in quel momento. Avrei ceduto volentieri tutta la mia attrezzatura se ciò avesse riportato indietro le immagini perdute.
Ho iniziato a lavorare con Lightroom CC tramite una connessione da fotocamera a telefono, in modo da poter almeno condividere qualcosa rapidamente in mattinata. Ancora non sapevo che il programma fosse impostato di default per utilizzare i dati cellulare e sincronizzarsi con il cloud. Così facendo avrebbe oltrepassato il limite del mio traffico dati consentito e mi sarebbe costato un’altra fermata al Parco della Vittoria in tariffe roaming.
Quella notte sono andato a letto sentendomi perso, triste, in colpa e semplicemente giù.
Al mattino due cose mi hanno rimesso in piedi. La prima è che la magia aveva colpito ancora: il mio laptop aveva improvvisamente 50 GB di spazio libero disponibile. La seconda e più importante sono stati il supporto e la comprensione che ho ricevuto dalla squadra. Le mie foto erano andate perse ma io non lo ero più. Ciò che avevo sulla prima scheda di memoria era più che sufficiente!
Siamo andati in giro un paio d’ore per prendere altre provviste. Non ricordo esattamente cosa e dove dato che ero incollato al monitor del portatile, cercando di recuperare tempo con la produzione delle immagini.
Una volta al campo, ho fotografato soprattutto gruppi di orfani durante la distribuzione di buoni che permettono ai profughi di acquistare cibo in un supermercato di Adana.
Il gruppo “numero 1” è fra i casi più urgenti in quanto questi fratelli orfani non hanno responsabili adulti che li tutelano
Anna ed Elisabetta si sono sistemate nelle rispettive tende nell’altro settore del campo, dove avrebbero trascorso l’intera giornata con temperature insopportabili.
In seguito, Arianna ha ricevuto un nuovo – anche se ricorrente – inquietante sms da parte di un mittente anonimo che ancora una volta ha lanciato una serie di accuse diffamatorie e ha minacciato di chiamare la polizia. Molto probabilmente un ennesimo tentativo di estorsione.
Il campo è situato su un terreno agricolo privato e c’è sempre il rischio che il proprietario decida di revocare il permesso nonostante i profughi paghino l’affitto. Forniscono inoltre una fonte di manodopera estremamente economica. I bambini non vengono risparmiati e si trovano a dover scegliere tra la scuola e il duro lavoro nei campi per mantenere le loro famiglie.
Sfortunatamente non è una notizia nuova che i migranti disperati – in tutto il mondo – vengano spesso sfruttati come schiavi moderni per colmare le lacune del lavoro a basso costo tanto necessario alla nostra economia malata. Questo “mercato della carne” riemerge ad ogni esodo in cui i rifugiati vengono lasciati soli ad affrontare viaggi pericolosi – spesso sfruttati dalle mafie locali – da paesi dilaniati dalla guerra o da governi distopici. E’ una lotta darwiniana in cui solo i più forti riescono a raggiungere le coste dei paesi occidentali apparentemente più sicuri e più ricchi, ma spesso scopriranno che la terra promessa è in realtà una fortezza impenetrabile.
Le persone che ho visto nel campo hanno molte storie orribili da raccontare e sono riuscite a malapena a salvare le proprie vite. Non sono nemmeno la base della piramide, sono sotto di essa, schiacciati.
Il lunedì mattina è arrivato in fretta e Anna, Elisabetta ed io dovevamo ripartire. Anna però si è svegliata con 39 di febbre e volare non era un’opzione. Una dose elevata di paracetamolo ha abbassato la temperatura a soli 0,1 gradi al di sotto del limite per viaggiare e fortunatamente non è più salita durante il suo volo di 20 ore di ritorno a Bergamo. Dev’essere stato per via della stanchezza.
Mi chiedo – parafrasando – quando medici, infermieri e tutte le persone che dedicano la loro vita ad aiutare gli altri inizieranno a ricevere un applauso più forte rispetto ai calciatori e alle celebrità- figuriamoci uno stipendio migliore.
Perchè continuano a fare quello che fanno? E’ nella loro natura? La solidarietà era inclusa nella teoria dell’evoluzione di Darwin?
Non so rispondere a questa domanda però vedo i frutti di questa realtà altruista come fossero gocce nell’oceano, che mantengono le loro proprietà, identità e scopo, ad ogni costo e contro ogni avversità.
Una goccia, due, tre … sino a diventare infinite.
Il potere dell’acqua non si ferma alla superficie visibile. Ogni nostro sforzo, ogni nostra azione (di cui forse non vedremo mai l’effetto diretto) è come una goccia tra le tante che formano il mare del cambiamento.
Per favore, donate e partecipate: www.supportandsustainchildren.org
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